Prima di tutto, capiamo cosa intendiamo con “musica classica”. La musica classica non è un genere, ma una classificazione di carattere essenzialmente temporale che definisce tutta la musica “colta” del passato (quindi creata non solo in un unico periodo storico) e in questo senso si differenza dalla “musica contemporanea” che invece designa un fenomeno analogo ma legato alla prosecuzione, nel presente, dello stesso spirito innovativo. Di per se, volendo essere precisi, la musica realmente “classica” andrebbe collocata nel periodo tra Mozart e Beethoven, considerando altri sottoperiodi, tra cui il barocco (da inizio seicento a fine settecento) o il romanticismo (ottocento) ma, per semplicità, si considerano i termini “musica classica” e “musica colta” come sinonimi.
Detto questo, la classica non è un “genere” cui si può aderire o meno (come il blues o il country o il jazz – con tutte le sue sottocategorie): quindi, se oggi un compositore vi dice “io scrivo musica classica” ha le medesima credibilità di un architetto che dica “io faccio arte classica” pensando di realizzare templi greci: al massimo, sarà buono per qualche pacchianata alla Las Vegas.
Veniamo a noi: per una persona del giorno d’oggi, il fatto che la musica abbia un presente e un passato (e un futuro) è un concetto scontato, così come lo è il fatto che si possano ascoltare simultaneamente nuove cose o brani scritti anni, decenni o secoli fa. Anche nell’ambito del pop l’asse temporale è ben chiaro: un artista può scegliere di eseguire un brano del passato, dandogli nuova vita, stravolgendolo o rispettandolo (il successo lo decreta il pubblico), ma avendo ben chiaro che sta richiamandosi al passato. Un artista che propone oggi un progetto fatto in conformità a uno stile di mezzo secolo fa, senza alcun concetto “personale” o comunque innovativo, verrà al massimo bollato come revival.
Non è tuttavia sempre stato così: per fino a circa due secoli fa, la musica era molto più “usa e getta” e veniva concepita per durare un certo periodo e poi essere dimenticata; il fatto che ci fosse musica interessante tratta dal passato non era un’idea così comune. Ma vediamo più in dettaglio la questione.
Nell’approccio moderno all’esecuzione musicale il concetto di “repertorio” e’ assolutamente fondamentale: ogni esecutore apprende già nel suo corso di studi gli elementi fondamentali della storia della musica, dal medioevo ai giorni nostri: a differenza del passato, il musicista classico che si dedica unicamente alle proprie composizioni o, piu in generale, al repertorio contemporaneo è considerato uno specialista. Il repertorio che le platee frequentano piu volentieri è legato ai secoli passati. Tuttavia, la conoscenza di composizioni scritte decenni (o secoli) prima, fino all’inizio dell’ottocento, era stata retaggio esclusivo dei compositori, che studiavano le opere dei loro maestri per affinare il proprio stile. In questo senso, la musica di un certo compositore smetteva di esistere nelle esecuzioni dopo la morte di questi, per lasciare il posto a nuove sonorità, piú moderne e vicine al gusto del pubblico contemporaneo. A partire dall’inizio del secolo XIX, grazie ad alcune menti illuminate , si comincia a proporre al pubblico anche musica dei secoli precedenti ritenuta ancora interessante per una platea “moderna”. Nei programmi di concerto, pertanto, accanto alla musica di nuova concezione, cominciano a comparire le composizioni dei grandi maestri del passato che finiranno, nel novecento, per soppiantare in modo quasi totale la musica contemporanea (che oggigiorno circola purtroppo molto piú negli ambiti specialistici che non in quelli mainstream).
Storicamente, un istante cardine di questa evoluzione viene generalmente individuato nella prima esecuzione moderna della Passione Secondo San Matteo di Bach, diretta da Felix Mendelssohn a Berlino nel 1829, evento che gli storici della musica pongono alla radice della riscoperta moderna del compositore di Eisenach: infatti, dopo la sua morte (avvenuta a Lipsia nel 1750) la musica di Bach era stata immediatamente soppiantata dalle opere dei suoi successori, proprio per la concezione unicamente d’uso che se ne faceva all’epoca: i nuovi musicisti, successori di Bach a Lipsia, avrebbero scritto ed eseguito musica nuova, così come a Bach era stato chiesto di scrivere brani per soppiantare le composizioni dei suoi predecessori. Invece, i circoli berlinesi in cui Mendelssohn era cresciuto, animati dal suo maestro Zelter, avevano invece cominciato un inarrestabile percorso che mirava alla diffusione delle opere dei tempi passati. In questo senso, era stata fondamentale la redazione della prima storia della musica mai realizzata, che il nobile inglese Sir Charles Burney aveva pubblicato nel 1789, dopo aver intrapreso lunghi ed estenuanti viaggi per documentarsi nelle biblioteche di tutta Europa (viaggi descritti in due interessantissimi diari, altrettanto pubblicati dall’autore stesso, che costituiscono un’eccellente testimonianza della vita musicale in Europa nella seconda metà del settecento). La musica, pertanto, non è più solo l’emanazione del compositore, che risponde a un’esigenza contingente (come accompagnare un certo momento o solennizzare un avvenimento), ma comincia a essere concepita in senso storico, con una evoluzione, delle correnti e dei nomi di riferimento, così come le arti figurative, il teatro, la letteratura.
Nel corso dell’ottocento, la musica “colta” (termine che Theodor Adorno avrebbe adottato solo negli anni trenta del novecento) circola sempre piú facilmente tra la gente: andare a un concerto è alla portata di molti, anche perchè chi gestisce le sale ha interesse a vendere più biglietti anche se a un prezzo inferiore e pertanto appronta appositi settori periferici destinati, appunto, a essere venduti a chi si può permettere di investire di meno. Altresì, la rivoluzione industriale rende più economico il processo di stampa e ha lo stesso effetto sui costi di fabbricazione degli strumenti musicali, il che permette a moltissimi di imparare a suonare e far musica a casa: quello che per anni era stato un privilegio della nobiltà viene ora conquistato, mutatis mutandis, dalla neonata borghesia che, invece di sovvenzionare un compositore, ha a disposizione un’enormità di musica pronta per l’uso, facilmente reperibile nei negozi: infatti le case editrici pubblicano, a ogni nuovo successo musicale (opere liriche, sinfonie, concerti o altro), edizioni “popolari”, adattate o semplificate, che permettono a tutti di poter riprodurre nel salotto di casa le melodie sentite in teatro o in sala da concerto: per ascoltare musica non è più obbligatorio uscire di casa. La richiesta è diventata quindi sempre più forte e serve allargare il repertorio: ma il processo di riscoperta della letteratura passata si è messo in moto e la presenza di opere appartenenti a varie epoche durante i concerti diventa sempre piú frequente: per citare solamente qualche esempio, tra il 1861 e il 1863, Enst Pauer organizza concerti a Vienna comprendenti musiche dal 1600 in poi ; Franz Liszt adatta al pianoforte molte composizioni organistiche e orchestrali di Bach; nel 1884/1885 il grande pianista Anton Rubinstein chiude la propria carriera con una tournée lunga due anni e, in ogni città dove si reca, esegue ben sette diversi programmi di concerto (in sette serate successive), uno dei quali è interamente dedicato agli autori tra l’Inghilterra elisabettiana di William Byrd e il classicismo viennese di Wolfgang Amadeus Mozart, mentre gli altri percorrono tutta la storia della musica dell’ottocento.
Man mano che il mercato musicale si mette in moto, il mondo concertistico comincia a diventare sempre più sfaccettato. In particolare, i concerti vengono realizzati da due tipologie di artisti: gruppi residenti e gruppi itineranti. Un gruppo residente, come può essere un’orchestra, e’ tipicamente legato a una sede, all’interno della quale propone stagioni concertistiche, ovverosia cicli di concerti che tipicamente durano tutto l’anno. Ha un ruolo di primo piano nella realizzazione di autentiche politiche culturali a livello locale (spesso prevedendo stagioni popolari, con prezzi calmierati per i meno abbienti, oppure curando attentamente il repertorio): qualche esempio odierno può essere ritrovato in orchestre legate a luoghi fisici legati all’ascolto musicale, come quella del Gewandhaus di Lipsia, del Concertgebouw di Amsterdam, la filarmonica della Scala di Milano o quelle ormai defunte dell’Augusteum di Roma (oggi Orchestra Nazionale di Santa Cecilia) e dell’Angelicum di Milano (oggi, sulla carta, diventata orchestra Milano Classica, ma con un livello qualitativo – e relativa reazione del pubblico – decisamente incomparabile). Ma altrettanto si possono citare realtà ben note legate a una città’ (per citare solo qualche nome, Berliner Philarmoniker, London Philarmonic, London Symphony, Wiener Philharmoniker, Orchestre de Paris tra le Europee; in USA le orchestre di Cleveland, Los Angeles, New York, Boston; in Italia la già citata orchestra di Santa Cecilia, l’orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, l’orchestra Verdi di Milano).
I gruppi itineranti, invece, non sono legati a una sede concertistica fissa, ma si esibiscono dove sono invitati: sono pertanto impegnati costantemente in lunghe tournée per proporre le proprie esecuzioni e, di fatto, costituiscono un’evoluzione del concetto di musicista solista (figura nata sulla scia dei grandi virtuosi ottocenteschi, come i pianisti Liszt e Chopin, o i violinisti Paganini o Sarasate). Molti complessi da camera raggiungono vette di fama quasi leggendarie: basti pensare al trio di Trieste, al Beaux-Arts Trio, al Quartetto di Budapest, all’Amadeus Quartet, al Quartetto Italiano, all’Alban Berg Quartet, per limitarsi a citare pochi esempi. Ovviamente tali gruppi sono da principio formazioni piuttosto piccole (tipicamente 2-4 persone) perché per complessi di dimensione maggiore i costi di viaggio sarebbero diventati proibitivi: solo nella seconda metà del novecento il costante aumento degli investimenti nella produzione concertistica, suffragato dal crescente interesse da parte del pubblico per ascoltare dal vivo le formazioni che conosce tramite i dischi, permetterá di mandare in tour addirittura intere orchestre (quindi gruppi che vanno dalle 30 alle 120 persone circa), come oggi é prassi comune.
Proprio per gestire la complessità di queste operazioni, che comprendono ovviamente, oltre alla musica, i contratti, i viaggi e la programmazione, il mondo musicale eredita dal mondo del teatro lirico la figura dell’impresario, inteso come funzione intermedia tra il committente e l’artista, incaricata di programmare l’agenda del gruppo/artista e fornire lavoro effettuando promozione verso il pubblico e negoziazione verso l’organizzatore. Nonostante questa funzione rimanga costantemente nascosta al pubblico (che altro non vede che gli artisti e l’organizzatore), questi livelli intermedi vanno sempre piú sviluppandosi fino ad arrivare, come era successo nei teatri lirici a inizio secolo e come é oggi in tutto il mondo strumentale, a diventare il reale motore che imprime la propria direzione al mercato: non a caso, le relazioni tra le agenzie di management e i committenti, che de facto sono rapporti tra un concessionario e un acquirente, diventano sempre piú esclusive, per ovvie ragioni di comodità. Un acquirente compra piú volentieri da un fornitore che conosce e di cui si fida e, altrettanto, un venditore propone piú facilmente un prodotto di comprovata affidabilità: in questo senso i cartelloni tendono a riempirsi unicamente di nomi ben noti, poichè questo meccanismo, per quanto garantisca la sopravvivenza senza rischi dei nomi ora sul mercato, costituisce una barriera all’ingresso non indifferente per i nuovi progetti, oltre ovviamente a comportare un progressivo aumento dell’etá media dei protagonisti.
Nei primi decenni del novecento, in particolare dopo il 1920, la musica dal vivo risente di un calo vistoso di presenze da parte del pubblico, legato alla nascita del cinema. Un film può essere riprodotto migliaia di volte senza dover pagare stipendi per ogni replica, effettuando ogni volta una rappresentazione con i migliori attori, pertanto i costi per partecipare a una proiezione sono molto bassi sia in senso assoluto che in senso relativo; inoltre può essere visibile in più posti simultaneamente, anche in orari diversi. Per tutta la fetta di pubblico che concepiva la musica solo come un passatempo qualsiasi (ma lo stesso discorso vale anche per teatro di prosa e opera lirica) il cinema viene a essere un’interessante alternativa. Questo ha l’indiscutibile vantaggio di aumentare il livello culturale degli spettatori (che sono quindi persone realmente interessate al contenuto e non solo in cerca di un diversivo per la serata), ma anche lo svantaggio di diminuire il numero di biglietti venduti che, fino a quest’epoca, sono l’unica fonte di sostentamento delle sedi concertistiche, insieme al mecenatismo privato. Proprio per salvare dalla crisi il mondo del cosiddetto spettacolo dal vivo vengono istituite, in varie nazioni, politiche di sovvenzionamento pubblico . Questo approccio, nato per far fronte a una situazione contingente, si rivelerà tuttavia una misura permanente, perchè nei decenni successivi si moltiplicheranno gli eventi che, potenzialmente, rischiano di attentare alla sopravvivenza del settore: negli anni trenta la radio comincia a portare musica in tutte le case, il che crea posti di lavoro: esistendo unicamente la diretta, le emittenti principali formano le proprie orchestre per trasmettere concerti (citiamo, ad esempio, le ormai defunte orchestre della RAI di Milano, Roma, Torino, l’Orchestra della Radio Svizzera Italiana, o i Bayerischen Rundfunk); dalla fine degli anni quaranta i dischi cominciano a entrare in tutte le case (con un vero e proprio boom negli anni sessanta ).
Nella seconda meta’ del novecento, sostanzialmente, per ascoltare musica non e’ più necessario saper suonare uno strumento o recarsi da qualche parte e questo, ovviamente, potrebbe minare alla radice la sopravvivenza del mondo concertistico. Tuttavia, una serie di politiche culturali illuminate, purtroppo applicate a macchia di leopardo, cercano di volgere a proprio vantaggio questa situazione: la radio, il disco, la televisione altro non sono che elementi promozionali volti a accrescere la fama di un certo brano o di un certo interprete: la possibilità di ascoltarlo dal vivo, con le caratteristiche di rarità ed esclusività che caratterizzano il concerto, ne costituisce l’atto di fruizione suprema . Molti musicisti, personaggi tipicamente “muti” e restii a comunicare tramite mezzi che non siano l’esecuzione, diventano infatti protagonisti televisivi come divulgatori (su tutti, si citi Leonard Bernstein che diventò un autentico nome di riferimento per chiunque in USA per tramite delle sue trasmissioni televisive). La trasformazione del mondo concertistico legata a tutti questi fenomeni venne descritta in maniera formidabile da Umberto Eco in “Apocalittici e integrati” nel 1964; il professore aveva ben presenti anche alcuni campanelli d’allarme ancora validi (e, almeno per quanto riguarda il caso italiano, decisamente inascoltati inascoltati)
“All’inizio il disco offre una musica qualitativamente inferiore a quella che si può ascoltare dal vivo ma gradatamente il prodotto migliora [. . . ] e riesce finalmente a permettere condizioni d’ascolto ideali. A questo punto, cogliendo la situazione [. . . ] al suo attuale punto d’arrivo, noi possiamo notare una serie di conseguenze che sarebbe difficile definire in blocco come semplicemente negative o semplicemente positive [. . . ]:
1. La diffusione del disco porta a uno scoraggiamento progressivo del dilettantismo musicale: scompaiono le piccole comunità di amatori che si riunivano per suonare [. . . ] scompare l’esecutore privato [. . . ]. La gente “ascolta” musica riprodotta e non impara piu a “produrre” musica. Mentre cresce il livello generale dell’alfabetismo e della cultura, decresce il numero di coloro che sanno leggere la musica. A questo impoverimento può ovviare solo una educazione scolastica che tenga conto della nova situazione venutasi a creare in seguito alla diffusione del disco
2. Come contraccolpo positivo, la diffusione del disco scoraggia le esecuzioni pubbliche di mediocre livello, toglie ogni ragion d’essere ai piccoli complessi sinfonici e alle compagnie operistiche [. . . ] di provincia che, se da un lato avevano una preziosa funzione informativa, dall’altro diffondevano informazioni scadenti [. . . ]. Il campo del consumo si restringe alle esecuzioni dal vivo fate da validi interpreti e alla riproduzione e smercio delle medesime.
3. Tuttavia nella sua opera di diffusione il disco propaga solo un repertorio commercialmente universale, incoraggia una certa pigrizia culturale e una diffidenza verso la musica inconsueta. Mentre il concerto dal vivo può contrabbandare in un programma accettabile anche musiche difficili da imporre al proprio pubblico, il disco deve vendere, e vende ció che piace già [. . . ]”
Nonostante la fruizione della musica diventi negli anni sessanta un fenomeno massificato e pertanto soggetto a precise regole di mercato non facilmente negoziabili, il mondo concertistico riesce a non mostrare cenni di cedimento. Il contributo pubblico che garantisce il sostentamento delle stagioni musicali, unito alle azioni promozionali fatte dalla radio e dalla TV, trasforma la fruizione della musica in un’industria di dimensioni enormi, sempre in cerca di coinvolgere nuovi soggetti e nuove fasce sociali: esemplare il caso di Paolo Grassi, sovrintendente del Teatro alla Scala negli anni 70, che inventa (insieme a personaggi del calibro di Maurizio Pollini e Luigi Nono) i concerti per i lavoratori che si svolgono a prezzi estremamente popolari tanto nella sede meneghina quanto in luoghi periferici (fabbriche comprese), con programmi interessanti e interpreti di primo piano (il flautista Severino Gazzelloni o il violinista Salvatore Accardo che non era raro poter vedere anche nei varietà del sabato sera accanto a icone pop come Mina), volti a coinvolgere peraltro nel processo culturale le fasce maggiormente al centro delle cronache del periodo della contestazione.
Gli anni ottanta portano un periodo di generale rinnovamento: l’uscita dal mercato del vecchio LP di vinile, sostituito dal piu capiente e durevole Compact Disc, comincia nel 1981 e termina nel 1993, anno in cui i negozi di dischi dismettono completamente il vecchio formato, per quanto già da molti anni le etichette pubblicavano le nuove uscite solamente su CD: è l’occasione per gli ascoltatori per rinnovare la propria collezione, ma altrettanto per i produttori per lanciare nuove etichette discografiche di nicchia, forti dei costi di produzione molto bassi che il nuovo sistema digitale ha portato con se’. Questo porta, allo stesso tempo, nuova luce su interpreti storici (di cui vengono ripubblicate le registrazioni fuori catalogo) e nuovi musicisti che vengono alla ribalta.
Purtroppo, la differente attenzione da paese a paese data ai finanziamenti per la cultura nel corso degli anni novanta andrà a creare una crisi globale che si protrae ancora oggi: l’Italia elimina gran parte della presenza di elementi culturalmente elevati dai programmi televisivi e, nel 1994, chiude quasi tutte le orchestre della RAI, che avevano un ruolo fondamentale nell’alfabetizzazione musicale della popolazione; contestualmente, il FUS (Fondo Unico per lo Spettacolo, che regolamenta, in un’unica legge, i contributi pubblici per cinema, musica, danza, teatro, circo e spettacolo viaggiante, istituito con la legge 163 del 30 aprile 1985) viene gradualmente ridotto (dall’originario 0,08% del PIL, nel 1985, allo 0,02% del 2016), causando la cessazione dell’attività di molti complessi e festival che, essendo nati e cresciuti sotto l’ombra rassicurante dei finanziamenti pubblici, non avevano ritenuto importante preoccuparsi di differenziare le proprie risorse assicurandosi altre fonti di finanziamento che non fossero sotto il controllo statale.
Tuttavia, proprio negli anni novanta, si aprono nuovi mercati: in primo luogo, i paesi dell’ex cortina di ferro (soprattutto Ungheria, Cecoslovacchia e Polonia) che, dopo l’apertura della libera circolazione e l’aumento di valore delle monete locali, diventano una meta sempre piú ambita per i musicisti stranieri; in secondo luogo, le nazioni dell’Asia orientale (soprattutto Giappone, Corea e la regione Indocinese), dove vengono edicati grandi auditorium e in cui si puó ancora gustare lo stupore della novità da parte delle platee, estremamente affettuose nei confronti dei musicisti d’occidente. territori in cui l’ambito concertistico era nato, oggi, mostrano una situazione abbastanza dispari da nazione a nazione, in cui l’elemento discriminante risulta non tanto legata agli investimenti pubblici sullo spettacolo in sé (che, al massimo, possono far sopravvivere la manifestazione ma certo non veicolare pubblico) quanto a quelli sull’istruzione e sui contenuti mediatici.
Nel caso specifico dell’Italia, si nota l’effetto negativo di un’educazione musicale rimasta ancora a prima della riforma che Umberto Eco auspicava oltre mezzo secolo fa e di progressiva scomparsa della musica classica dalla televisione stanno riducendo in modo molto brusco il pubblico di domani. La partecipazione dell’Italiano a eventi percepiti come di “musica colta” è ancora considerata come un valore aggiunto: prova ne siano artisti come Giovanni Allevi, Andrea Bocelli o Il Volo, artisti del tutto legati al mondo del pop ma che sono stati percepiti – grazie a un’attenta campagna di comunicazione – come artisti classici, oppure il grande successo di musicisti osannati dal pubblico per quanto considerati mediocri interpreti dalla comunità degli esperti – il pianista Lang Lang, o l’organista Cameron Carpenter, per citare due esempi recenti – che di fatto hanno conquistato il pubblico grazie a una massiccia esposizione mediatica centrata su caratteristiche non musicali: si tratta di una novità assoluta nel mondo “colto” se si considera che, per molti musicisti, fino a poco tempo fa, anche rilasciare un’intervista era considerato un’eccezione.
Al contrario, nazioni come Francia o Germania, forti anche di una maggior spesa sull’istruzione e di una maggior capillarità dell’alfabetizzazione musicale (soprattutto per i frequentatori della chiesa Luterana, dove la disciplina musicale è curata e regolamentata da autorità esperte e certificate ed è possibile, per chi vuole, avere la possibilità di fare esperienza corale con docenti di esperienza e curriculum comprovato, a differenza del mondo cattolico dove questo ruolo è scomparso da molto tempo) mostrano un maggiore interesse del pubblico a frequentare in modo molto maggiore sia eventi mondani che semplicemente locali, investendo spesso cifre elevate in biglietti.
Tuttavia, è da osservare come il concerto di musica classica sia a tutt’oggi rilevato come un elemento di alto spessore culturale, per quanto l’azione divulgativa che sola può impedirne lo svuotamento delle platee sia oggi unicamente sulle spalle della volontà dei privati, che tuttavia sono stati privati, a loro volta del contributo culturale che avrebbe potuto renderli entusiasti sostenitori.
Il sistema si è fermato, e per farlo ripartire bisognerà ripensarlo da zero.
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