Secondo il punto di vista di molti popoli del mondo, un edificio di culto del 1500 che non sia più adibito alle proprie funzioni religiose è considerato un mucchio di pietre da lasciare in balia degli elementi.
I visitatori di altre nazioni, che invece si interessino di architettura, archeologia, teologia o altre discipline, potrebbero ritenere quell’edificio come un tesoro importante, per una serie di motivi che possiamo facilmente immaginare.
In questo senso, è facile vedere come il concetto di arte non sia assoluto, ma abbia una dipendenza dal concetto di cultura.
La cultura, in questo senso, è l’alfabeto che ci permette di leggere l’arte: senza la cultura non siamo in grado di distinguere un affresco da una macchia sul muro, una sinfonia da un frastuono, così come – se non conosciamo un alfabeto e la lingua cui corrisponde – non siamo in grado di capire se su un foglio ci sono scritte delle parole o dei segni scritti a caso. Sapendo leggere l’alfabeto latino, possiamo capire se un testo parla di moda o di cronaca, se è scritto in inglese o in italiano, se dice cose sensate o meno, se ci interessa o no.
Ora, immaginate che una persona che non sa leggere si trovi in una biblioteca, o in una libreria: ciò che lo circonda sarà solo un inutile mucchio di carta, utile per accendere il camino, avvolgere la frutta o fare usi ben meno nobili su cui non mi dilungo. Ma immaginate una persona che sa leggere che si ritrovi abbandonata sulla classica isola deserta: non gli faranno compagnia le parole dei libri che ha letto?
Uscendo dalla metafora, la verità è una sola: i monumenti, le opere liriche, i dipinti non sono cultura. Sono arte, e senza la cultura non sono niente. Il concetto di arte è soggettivo se rapportato a culture diverse, ma soprattutto l’arte è stata un prodotto della cultura (quando il buon Dio ha creato la terra, non c’erano il Colosseo, la Scala, la Divina Commedia e la Messa in si minore. Qualcuno li ha fatti, e non in seguito ad allucinazioni).
Ma in questo senso l’arte è consegnata a mezzi inanimati, la cui interpretazione è possibile solo tramite la cultura, che – come dice la parola stessa – è un processo di coltivazione della conoscenza, che avviene solo ed esclusivamente all’interno delle persone, con esiti diversi, in base ai gusti.
Finanziare i concerti a Caracalla o l’apertura di Pompei è finanziare l’arte: spiegare a chi non lo sa perchè il foro Romano è importante, o che cos’è il Rigoletto, è fare cultura.
A questo punto, si apre un grande dilemma, e scusatemi se riprendo la metafora della scrittura: immaginiamo una famiglia, formata da due genitori adulti e dei bambini in età prescolare, in un mondo in cui la scuola non sia pubblica.
I soldi sono pochi: cosa pensate che faranno i genitori, dovendo scegliere se pagare la retta per la scuola elementare oppure acquistare dei libri per proprio diletto?
Quale genitore acquista libri per sè lasciando che il figlio rimanga analfabeta? Non certo quello che vuol perseguire la propria conoscenza: semmai quello altrettanto ignorante, per il quale anche se il figlio non impara a leggere non cambia molto.
Sciogliamo la metafora: cosa è più importante, fornire a chi ama l’opera lirica la possibilità di ascoltarne di sempre nuove, oppure fornire a chi non l’ha mai conosciuta gli elementi per capire se gli interessa, esattamente come è successo a noi?
La cultura non si suscita solamente contemplando i quadri al Louvre, ma anche studiando una riproduzione su di un libro. Non si suscita solamente con le opere alla Scala, ma anche con una Traviata fatta nel teatro di paese, o con un ascolto alla radio o alla televisione.
Io, generico frequentatore di mostre e concerti, che compro libri e ascolto dischi, posso avere due approcci: o godere intimamente del fatto che chi c’è intorno a me non capisce, o sperare che, se un giorno moti di più fossero in grado di capire, a sentire questo concerto potremmo essere in cinquemila, che pagherebbero un biglietto perchè ci vogliono andare, per gli stessi motivi per cui ci voglio andare io. O a comprare questo disco potremmo essere in diecimila, perchè anche agli altri piace come piace a me.
Paradossalmente, se oggi, settembre 2011, un terremoto distruggesse tutti i nostri monumenti, se un incendio bruciasse i nostri quadri e i nostri libri, l’arte smetterebbe di esistere?
Ma se non fosse più chiara a nessuno la differenza tra il partenone e un palazzo demolito, l’arte smetterebbe di esistere?
Nel primo caso, ne dubito: rimarrebbe come concetto astratto, o come modello su cui ricostruire.
Ma nel secondo ne dubito molto meno.
Nell’attuale situazione, io rimango sconvolto quando parlando dei fondi alla Scala si parla di “tagli alla cultura”.
Quale crescita culturale provoca la Scala, in un mondo come quello odierno? Fornire spettacoli a un pubblico che è sempre lo stesso, che se lo può permettere, e che in buona sostanza andrebbe indipendentemente dai costi (e purtroppo, ormai, anche dagli spettacoli)?
E il pubblico che non ne sa niente?
E il pubblico che non se lo può permettere?
Forse quei soldi permettono la crescita della cultura, in un mondo sempre più analfabeta?
Forse quei soldi servono a calmierare il costo dei biglietti?
Oppure servono per mantenere in piedi sistemi costosissimi, in cui i cantanti costano decine di migliaia di euro a serata ma “sono nomi”, e quindi permettono di attrarre persone in nome del divismo, che non implica necessariamente qualità?
O forse stiamo parlando dell’azienda scala, che ha dipendenti che giustamente hanno diritto a mantenere il proprio lavoro? Benissimo. Ma allora facciamo come in ogni azienda: riduciamo le spese, alziamo i prezzi al consumo, ridistribuiamo i costi. Andiamo a vedere se gli appalti hanno valori competitivi, andiamo a vedere che compensi si sganciano ai “consulenti esterni” (cosa molto di moda a Milano), andiamo a vedere quanto costano gli aggiunti rispetto agli orchestrali, andiamo a vedere se c’è qualche falla. Oppure andiamo a vedere se chi calcola i budget sa fare il suo mestiere, decidendo di affrontare spese di cui ha una previsione di rientro, oppure calcola a caso.
Questa Scala, che è milanese più di tutti noi, in questo momento mi sembra tanto Cesarino Pianelli, il Lord Cosmetico. E avrebbe tanto bisogno di un Demetrio che la tiri fuori dai guai, possibilmente prima di compiere l’insano gesto.
Se si dessero 100.000 euro in meno alla Scala (1/30 di quello che il comune promette per ripianare “parte del buco”) e li si distribuisse tra 10 (ma anche tra 100!) istituzioni meritevoli per organizzare concerti, corsi, attività di formazione, non si limiterebbe il rischio che, tra 30 anni, i teatri d’opera siano deserti, perchè nessuno ne capisce più niente?
Se si riducesse della metà i budget dei concerti si potrebbe facilmente mantenere il livello qualitativo, risparmiando, allo stesso tempo, di pagare cachet elevatissimi che alcuni interpreti di grido chiedono (giustamente, perchè è il loro valore di mercato) e ottengono (giustamente, perchè non siamo al mercato delle vacche).
E perchè non lo si fa?
Perchè in questo mercato che ha generato soldi, lavoro, pubblicità, scioperi (insomma, tutto tranne che cultura) uno spettatore non va a sentire il concerto, ma va a sentire “il nome”. Che costa.
Dimostrando per l’ennesima volta che si produce di tutto, ma non cultura.
(Originariamente pubblicato su Facebook il 20 settembre 2011)